Io vorrei fare una domanda a tutti quelli che, a mio avviso, sovrastimano l’importanza delle dinamiche aziendale e delle cosidette “soft skill”. La domanda, anzi le due domande, sono le seguenti: 1) quanto tempo pensate ci voglia per imparare le dinamiche aziendali, i processi interni, il flusso di dati/azioni/documentazioni che bene o male si ripetono in tutti i settori con differenze grandi o piccole? O meglio, quale può essere la difficoltà che incontra uno che ha studiato una qualsiasi facoltà tecnico-scientifica, nell’apprendere questi flussi, e quale può essere il tempo di assimilazione? Io a questa domanda mi sono risposto: la difficoltà nell’apprendere sarebbe bassa e il tempo limitato, se solo l’azienda fosse strutturata e propensa ad inserire la risorsa in tempi rapidi ed in maniera completa, cosa che spesso non avviene perchè le aziende nostrane sono un troiaio di disorganizzazione e legate a logiche di mercato vecchie di 50 anni, non a caso siamo la patria delle PMI; ora verranno i soliti a farmi l’esempio di qualche grossa multinazionale o di qualche startup o spinoff, che faranno si e no l’1% delle aziende italiane, e io dico: esticazzi? Se la stragrande maggioranza degli imprenditori nostrani ragiona come un latifondista del medioevo, a fare la differenza non sarà di certo la multinazionale che sta in italia (non di certo per beneficienza) e che attua logiche di recruitment, inserimento e formazione sensate. Per cui io penso che quella delle soft-skill e della conoscenza di “come si sta in azienda” è un finto problema, anzi non è affatto un problema del candidato ma dell’azienda. E’ come voler dire che il candidato deve conoscere come si sta in azienda perchè l’azienda non è in grado di fornire una visione chiara sui processi e sui flussi interni, perchè un azienda DEVE supporre che un laureato in ingegneria ha le capacità logiche di capire anche le logiche aziendali in tempi consoni, sempre che queste siano erogate dall’azienda stessa in maniera il più chiara possibile. 2) Sempre per quegli utenti che parlano di soft skill, vorrei parlare in particolare dell’aspetto puramente “sociale”, ovvero molti hanno fatto intendere che il datore di lavoro cerca qualcuno che abbia già lavorato e, quindi, dimostrato di saper lavorare in team e di non essere, per un usare un inglesismo, un “jerk”. Ma io vi chiedo: ne siete proprio sicuri? Di teste di CAxxO ne è pieno il mondo e a giudicare dagli ambienti di lavoro ultra tossici che si trovano a iosa, non mi sembra che tale logica venga applicata, o quantomeno i risultati sono ampiamenti discutibili. Se il datore di lavoro cercasse l’ambiente idilliaco peace&love, senza fannulloni, attaccabrighe, boriosi, arroganti, e altre simpatiche qualità, com’è che TUTTI, bene o male, possono raccontare di ambienti di lavoro, attuali o passati, tossici e con colleghi e capi del tutto inadeguati socialmente? Seconda parte della domanda: il fatto di avere/avere avuto un lavoro e lavorare/aver lavorato in team, in quale modo “certifica” che non siamo dei jerk? Ancora una volta, a giudicare da ciò che si vede in giro negli ambienti di lavoro semplicemente non certifica un bel nulla. A meno di non contattare il precedente datore di lavoro (e nessuno lo fa), non si ha nessuna correlazione a riguardo. Per cui io penso che la questione “soft skill” e “stare in azienda” siano enormenete sopravvalutate, soprattutto quando si parla di ruoli tecnici che non devono avere relazioni con pubblico (clienti/fornitori/certificatori ecc). Posso concedere al massimo ragionamenti sul lavorare sotto constrait particolari (di tempo, di budget ecc), ma anche questo lo trovo collegato più ad una sfera tecnica che a quella delle soft skill: se uno è bravo tecnicamente riesce a farti un lavoro in minor tempo o con un budget minore, quindi anche li in fase di recruitment si dovrebbe guardare alla bravura tecnica e poi quelle altre cose “verranno da sè”. Se poi l’azienda per risparmiare è in sottorganico o per essere competitiva mette budget constraint assurdi, costringendo i lavoratori (anche bravi) ad andare in burn-out, mi farei due domande sull’azienda più che sulle capacità di lavorare sotto pressione del dipendente.
Tutto questo, comunque, è per gettare fumo negli occhi e sviare dal vero problema, che trovo abbastanza semplice (l’ho scritto mille volte sul forum) e che mi stupisco che l’OP, dall’alto del suo PhD e delle sue millemila certificazioni ed esperienze formative, non abbia colto. Come già hanno detto altri, non è importante cosa fai, ma quanti soldi fai generare all’azienda, per questo motivo le figure commerciali saranno sempre più pagate di quelle tecniche che pur sviluppano il prodotto, e scendendo ancora di più troverai le R&D pure, che seppur costruiscono il futuro dei prodotti (e dell’azienda) sono, nell’immediato, un buco nero di soldi, che non si sa se frutteranno o meno, e che quindi solo i colossi possono permettersi (o le startup con i finanziatori che, in sostanza, “scommettono”). E’ a questi reparti di R&D avanzata, di queste poche aziende, che il PhD dovrebbe puntare. Ora, vari economisti americani hanno evidenziato come il PhD, visto come investimento, sia in sostanza una scelta sbagliata. E parliamo dello stato più potente al mondo nelle cui università si fa la ricerca di base più avanzata. Tenendo a mente questo, come può un PhD pensare di trovare una situazione buona in Italia? Siamo un paese arretratissimo, abbiamo sempre perso il treno dell’innovazione e non siamo da meno in questo periodo storico di grandi cambiamenti tecnologichi. Siamo stretti tra una morsa: da un lato grandi potenze economiche che investono (anche potendo fare deficit) e che galoppano tecnologicamente, con grandi poli scientifici e tecnologici; dall’altro, paesi in via di sviluppo che offrono manodopera a bassissimo costo. Noi non possiamo competere nè con gli uni nè con gli altri (più probabilmente con i secondi), e stiamo a galla grazie all’export del made in italy e a qualche eccellenza sporadica. Non c’è alcuna volontà, dal basso (sociale) o dall’alto (politica) di voler cambiare la situazione: la spesa percentuale del PIL in istruzione rimane infima (ai livelli della Romania), non si incentinvano in alcun modo aziende/enti che fanno ricerca di base e tecnologia avanzata, industria 4.0 è un goffo tentativo di rendere a livelli accettabili le PMI italiane che ancora lavorano “con la zappa”. Trovo perfettamente normale, e consequenziale, che la maggior parte delle figure formate in ambito tecnico-scientifico siano sottoimpiegate; e come seconda conseguenza si hanno stipendi bassi e stagnanti. E mi chiedo come un PhD non lo abbia capito e continui ad appellarsi a cose (vere, ma non di primario impatto nella questione) come le raccomandazioni e il nepotismo.
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